Il segno del tempo
Le rughe sui volti dei nostri nonni e genitori che, con grande maestria, spiccata professionalità e perseverante impegno, l’amico Pino ha immortalato con le meravigliose ed emozionanti foto di questo suo ennesimo lavoro, rappresentano il vissuto di una generazione che ha sofferto tanto e tanto si è sacrificata per dare a ognuno di noi un futuro migliore.
Un futuro che, purtroppo, tantissimi figli di quella generazione sono stati costretti a costruire in posti
lontani dal paese natio.
Abbiamo lasciato il vuoto ed un silenzio assordante in quelle rughe, dove da bambini ci ritrovavamo a giocare o ad ascoltare i racconti dei nostri nonni.
Un silenzio che da qualche anno fortunatamente viene parzialmente interrotto da frasi incomprensibili perché pronunciate in lingue straniere.
Un vuoto che seppur si tenta di colmare con iniziative ed espedienti di ogni genere, non potrà mai più essere riempito.
Il vuoto lasciato da quelle rughe in quelle rughe rimarrà purtroppo per sempre.
Pino ci aiuta a ricordare e rivivere la nostra gioventù.
Grazie Pino, e, citando la grande attrice Anna Magnani: “Lasciami tutte le rughe, non me né togliere
nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele.”
Giuseppe Nicola Parretta – Sindaco di Badolato
Un Paese ci vuole
Sul senso dei luoghi, sulle memorie, sull’appartenenza: la fotografia come veicolo e strumento
A Badolato superiore s’accede da una strada tutta curve, uliveti, pini marittimi. Un girone terrestre che addestra la vista alla consequenzialità delle cose: prima la terra, poi la storia dell’uomo, la tecnologia annessa, gli sforzi utili e quelli vani, gli errori, la fede, il destino. Il Paese, questo che abbiamo e ci sforziamo di trattenere nel suo scheletro murario, appare quasi all’improvviso, affrancato ormai dalla responsabilità di qualificare l’arroccamento coi suoni e gli sbadigli di una quotidianità dell’abitare.
Andando verso l’entroterra, in Calabria, lo scenario è sempre questo di un’apocalisse placida. La via dello spopolamento lascia cicatrici che sono falciate emotive, con la scure di un presente che cede ogni proiezione futura alle statistiche e si fa inquadrare in una lista di numeri e segni, tutti vincolati alla sottrazione. In questi spazi rimasti vacanti, però, la vita si ritorce: racconta una storia di silenzi, di erranza e di bellezza inesauribile che ora e sempre hanno il senso di una vocazione naturale. Non è tanto il peso del vuoto, che vogliamo necessariamente colmare, riempire con ragionevoli sostituzioni, a spaventarci, ma la fisionomia del disperso che rischia sempre, pericolosamente, l’oblio. E, ogni giorno, qui si combatte col sospetto che la riconoscibilità, che il senso dell’appartenenza stesso, possano svanire davanti alla mancanza di chiari riferimenti visivi. In Gente in Aspromonte, Corrado Alvaro scriveva: “è una civiltà che scompare e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”.
Non contrastare né addomesticare questo dolore ma accoglierlo e farlo strumento di ricognizione e di persistenza della memoria.
La fotografia di Pino Codispoti assimila questa lezione e si adopera in tale direzione, indaga – con tutta la complicità, il rammarico e la nostalgia del migrante – oltre quel limite provvisorio (così lo chiamava Kracauer) che esclude dal perimetro del supporto fotografico l’inesauribilità del fotografabile. Rughe. Memorie di una generazione è un ulteriore avanzamento verso l’esaudirsi di un’esigenza personale, ma pure di un’urgenza oggettiva, per fissare visioni destinate a esaurirsi.
Soggetti come paesaggi umani, liberati dalla zavorra della scenografia a tutti i costi, che incamerano e rivelano, nei segni del tempo e nei gesti del quotidiano, lo scopo della loro temporanea permanenza eppure della loro eterna fedeltà a una terra. Non personaggi autocelebrativi ma persone-simbolo che hanno la forza di rappresentare sé stesse e un’intera generazione ormai in estinzione. Dunque portatori di una realtà umana che non solo appartiene ma determina, per sempre, un luogo. Così, il bianco e nero appare, in queste fotografie, non una semplice scelta stilistica né un modo di neutralizzare le tonalità del ricordo. È invece la garanzia della zona acromatica, il modo in cui luci e ombre, chiari e scuri, riescono a inscrivere i contorni delle figure, a rendercele ancora più figurali in una dimensione fuori dal tempo, a solcare nettamente le rughe e quello che in questa narrazione vogliono significare.
La Ruga - qui evidenziata in tutta la sua ambiguità di senso - come metafora di un viatico, è il luogo fisico della vita sociale di un paese ma anche quello della storia personale di ciascun uomo. È la strada semideserta dove ora aleggiano, in un’imperturbabile evanescenza, i riti, i costumi, i mestieri, la signorilità delle pose, la dignità della povertà. È, in queste immagini, la confidenza che
traspare dagli sguardi, nel modo di affidarsi al fotografo, sintomo di una relazione profonda che ora tocca esattamente a noi come un dono dal passato.
È quell’antropometria distinta che usiamo chiamare, ancora, identità.
Elisabetta Longo, Direttrice del Mabos
Rughe
Rughe sono come solchi tracciati da un contadino, come tracce lasciate al mondo. Rughe sono i percorsi che intraprendiamo ogni giorno, sono le impronte, i passi del viandante, una persona che sta, che transita o che resta in un luogo.
Rughe è una eredità immensa in un segno soltanto che appare su di un volto nel tempo che scorre, che si produce su un terreno esposto al vento, che si crea su una superficie attraversata da una crepa.
La ruga disegna un paesaggio interiore ed un paesaggio esteriore; noi li possiamo osservare, ammirare e…fotografare, soltanto qualcuno li può tradurre in storie.
Le rughe infatti sono il tempo che non distrugge ma imprime segni e questi segni si possono leggere…raccontano.
I bambini, per esempio, sono molto interessati alle rughe dei nonni, sanno senza che glie lo si dica, che rappresentano storie. Spesso, carezzando il viso degli anziani provano a seguire la ruga che corre sul volto e poi chiedono un racconto che non tarda ad arrivare.
La ricerca per immagini di Pino è come quel dito di bambino sul volto della nonna, ha impiegato tempo a percorrerlo. Anno dopo anno, stagione dopo stagione egli non ha mancato di "guardare" e di raccontare con lo sguardo, quelle storie ascoltate mille volte.
Così le immagini, il suo paesaggio interiore, risuonano di passi sul selciato, di giunchi sfregati tra le mani, degli zoccoli del mulo, dello sferruzzare degli uncinetti, dello sgranare del rosario nel silenzio della chiesa.
Un battere e levare del tempo che è come musica ed armonia. Quell'equilibrio che ricerchiamo sempre, quanto più lontani ci troviamo dalle nostre radici, e che alle radici riconduce.
Immagini e suoni intessono il racconto dove si trovano queste stesse tracce, solchi, rughe, impronte, percorsi.
Il più prezioso dei racconti è quella memoria indelebile, unico tesoro che si possa tenere come eredità assoluta che lega per sempre ad un luogo. Quella terra madre alla quale tornerai sempre e che ti resta di conservare come unico Patrimonio che valga.
Il racconto è necessario ai figli, ai nipoti ai ragazzi insomma che a quella terra tornerebbero, per curiosità, impegno, appartenenza, per un intenso sentire o perché qualcuno gli ha indicato un solco…una ruga. E’ necessario come necessarie sono le immagini di Pino.
Ilaria Donati, archeologa
Rughe, memorie di una generazione
Parliamo di quelle persone nate nella prima metà del Novecento che, sopravvissute alle guerre e alle calamità naturali, hanno vissuto la loro età matura o giovinezza nel borgo tra gli anni '70 e '90. Questa generazione ha visto i propri figli e fratelli lasciare la casa per trasferirsi nella vicina Marina o emigrare nella lontana Australia. Sono loro i depositari della memoria di una comunità che si disperde, il collante che mantiene vive le radici delle nuove generazioni, preservando quell'identità che i nuovi luoghi tendono ad affievolire, a cancellare.
Per anni ho fotografato questa generazione tra le "rughe" del borgo, cercando di cogliere nei solchi dei loro volti la sapiente conoscenza che custodiscono. Mi trattenevo con loro, seduto al fresco del gradino davanti a casa, a parlare dei nonni e di quanto fosse bella la vita nel paese prima che la gente andasse a vivere altrove. Mi raccontavano storie di vita vissuta, con un sorriso che appianava i solchi nei loro volti.
Oggi tutto questo non accade più. Continuo a passeggiare tra le viuzze del paese con la mia macchina fotografica, ma le porte sono chiuse e non si sente più il vociare di una volta. Quella generazione non ritorna più dalla campagna all'alba e non si trattiene più a chiacchierare sui gradini del proprio rione. Devo a questa generazione il mio forte legame alla mia terra, per come hanno saputo fare di me un abitante del mondo con una forte identità radicata.
Questa generazione è un tesoro di memorie e saggezza, e attraverso le mie fotografie cerco di rendere omaggio al loro lascito, preservando la loro essenza e la storia della nostra comunità per le future generazioni.
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